Michele Mulas

Infermiere e ascoltatore compulsivo

free website templates

Immagino l’hyper-music senza testi: non necessariamente strumentale, ma qualora la voce umana ci sia, la vedo utilizzata come uno degli strumenti, non necessariamente in primo piano rispetto agli altri.

D1 — Nel 2013 Timothy Morton pubblica Hyperobjects, un libro al quale il nostro disco è ispirato. (Per avere un’idea di cos’è un iperoggetto, pensa al riscaldamento globale, che è: non-locale, viscoso, esteso nel tempo, ecc. ecc.). Morton nel suo libro fa anche vari esempi di hyper-music, passando dai My Bloody Valentine a The Well Tuned Piano di La Monte Young. (Qui puoi ascoltare un mixtape fatto dai ragazzi di Not con alcune selezioni sulla base dei nomi fatti da Morton). Ora, senza necessariamente conoscere nel dettaglio ciò che dice Morton nel libro, se tu dovessi immaginare una hyper-music, quali caratteristiche dovrebbe avere secondo te? Perché?

Michele - Parto dall’assunto che, appartenendo l’hyper-music alla sfera degli iper-oggetti, essa potrà mutuarne le caratteristiche (o almeno alcune di esse). Quindi la domanda per me diventa: in che modo caratteristiche degli iper-oggetti possono applicarsi alla sfera sonora?

Un’hyper-music viscosa e non locale mi fa pensare a un qualcosa di simile a quello che il liquido amniotico rappresenta per un feto: un oggetto/fonte sonora che avvolge completamente l’individuo, che si “sente” con tutto il corpo (non solo con le orecchie), qualcosa di cosi pervasivo che non ci si riesce ad immaginare che esista un altrove. Queste caratteristiche le vedo legate al modo di produzione della fonte sonora, qualcosa di completamente immersivo.

L’estensione nel tempo me l’immagino tradursi in una forma caratterizzata dalla ciclicità dell’elemento sonoro: una musica che, messa in loop, possa dare l’impressione di poter durare in eterno.

A livello di costituenti formali (ritmiche, melodiche, armoniche o timbriche) mi immagino dia un’impressione di “indefinito”. Qualcosa che obblighi il fruitore a mettere in gioco la propria percezione per definirla in modo da poterla fruire. Immagino l’hyper-music senza testi: non necessariamente strumentale, ma qualora la voce umana ci sia, la vedo utilizzata come uno degli strumenti, non necessariamente in primo piano rispetto agli altri.

D2 - L'altro tema portante di dTHEd è la neurodiversità. Per i neurotipici, immaginare la vita di un neurodiverso è estremamente complesso, al limite dell'impossibile. È dunque lecito chiedersi se sia possibile per dei neurotipici addirittura creare dell'arte ispirata e fruibile da neurodiversi. Secondo te, cosa si potrebbe fare e in che maniera dovrebbe differenziarsi dall'arte per neurotipici? Ha senso creare un'arte con queste premesse o dobbiamo immaginare che l'arte nella sua vastità possa già soddisfare anche i neurodiversi?

Michele - Premessa doverosa: pur cogliendo la necessità dei due termini, penso che le categorie “neurotipici” e “neurodiversi” rischino di essere troppo macro per permettere di definire le caratteristiche di un soggetto appartenente all’una o all’altra categoria. La differenza tra il grado di interesse nei confronti dell’arte di due individui facenti parte della stessa categoria puo’ essere abissale, come abissali possono essere le distanze tra i gusti dei due soggetti. Credo che tali differenze crescano ulteriormente se prendo in considerazione due individui di due categorie differenti e crescano in maniera esponenziale e direttamente proporzionale al numero di individui che osservo. Scrivo questo per sottolineare la difficoltà personale che provo nell’immaginare un’arte fatta “per i neurodiversi”. Cio’ detto, il fatto che io abbia difficoltà a immaginarla non escluede assolutamente la sua possibile esistenza.

Trovo che la domanda susciti una riflessione interessante e, per quel che mi riguarda, una risposta contraddittoria.

Se una persona non si limita a fruire solo delle opere alle quali è abituato, ma fruga e cerca nell’arte prodotta nei recessi del tempo più o meno remoto, o in angoli geograficamente più o meno lontani, non basteranno molteplici vite per esperire di tutto il “bello” che già esiste: quindi, da questo punto di vista, trovo che ci sia già abbastanza arte per soddisfare chichessia, a qualsivoglia categoria lo si voglia far appartenere.

Allo stesso tempo trovo che l’urgenza espressiva che puo’ portare uno o più artisti a tentare di immaginare un’arte “per neurodiversi” — che sfidi le percezioni dell’ascoltatore “normotipico”, col fine di fargli esperire una percezione radicalmente differente da quella alla quale è abituato e aiutarlo a capire che tale percezione “altra” non è altro che il reale di una parte del mondo, che magari il detto fruitore fino a quel momento non aveva mai preso in considerazione — comporti un atto di “mimesi creativa” fondamentale e necessario. In quanto supposto “neurotipico” temo di non aver gli strumenti per dire se sia possibile fare un’arte “per i neurodiversi” (figurarsi per dire come: ché se lo sapessi, probabilmente starei provando a farla). In quanto (sempre supposto) “neurotipico” che, in seguito alla scoperta della “neurodiversità” avvenuta quasi per caso grazie a diverse esperienze di volontariato, ha deciso di lavorare come infermiere in psichiatria sono convinto che dei tentativi originali e sentiti di riportare l’alterità al centro dell’attenzione generale, svincolandola da un discorso mediatico “tossico” (nel quale l’altro — sconosciuto, straniero o diverso — è visto con diffidenza, quando non apertamente discriminato, stigmatizzato o criminalizzato) sia un gesto lodevole da un punto di vista culturale, artistico e politico. Oggi più che mai.

Mobirise
D3, da Daniele Ferriero - Di fronte alla complessità delle materie del mondo, come si può sfuggire agli archetipi musicali e artistici che dominano l’orizzonte cognitivo della nostra specie? Possono, qui, entrare in campo altre sensorialità e percezioni (inumane, arti ciali e arti ciate, diffuse e/o collettive, esotiche e aliene, postumane e di specie diverse, macchiniche e algoritmiche, etc)? Se la risposta è positiva, come si può procedere?

Michele - Rispondo partendo dal presupposto che "sfuggire dagli archetipi" sia funzionale a trovare strumenti per rappresentare la complessità del reale.

Da fruitore credo che la nozione di complessità possa essere esperibile tramite le caratteristiche di una singola opera, ma soprattutto grazie alla ricchezza delle differenze (d’approccio, stile, funzione, estetica) esistenti tra molteplici opere. La complessità del reale per me nasce da una visione sistemica delle opere che mi porta a considerarle non individualmente, quanto in un sistema di relazioni esistente tra di loro. Da questo punto di vista, maggiore sarà il grado di differenze presente negli approcci, maggiore sarà la possibilità di fruire della ricchezza della complessità: si tratterebbe insomma di “preservare la biodiversità”.

Peccato che il numero degli stimoli ai quali il cosidetto “pubblico generalista” è esposto sia cresciuto nel tempo in maniera inversa- mente proporzionale alla loro varietà. A fronte di questo, gli strumenti che possono permettere a una persona di ricercare i vari tasselli che comporranno il suo mosaico della complessità si sono moltiplicati, ma la “conditio sine qua non” all’utilizzo di tali strumenti presuppone una volontà da parte del fruitore che a sua volta può nascere solo dalla nozione (spesso da un vago sospetto) che ci siano archetipi altri, ci sia alterità, ci sia “biodiversità”.

I tasselli del mosaico che, messi gli uni a fianco agli altri, potrebbero dare una rappresentazione del mosaico della complessità sono già presenti, mi resta oscuro come renderli visibili a un pubblico sottoposto a stimoli sempre più uniformi. 

l che mi porta alla mia domanda...


La domanda che pongo io è:
A chi spetta il compito di rendere maggiormente visibili a un pubblico “generalista” un’insieme di opere d’arte i quali canoni non rientrano negli stereotipi che dominano l’orizzonte cognitivo della nostra specie? Quali sono gli strumenti a disposizione per farlo?